Come i Pfas hanno contaminato l’Italia

Come i Pfas hanno contaminato l’Italia

Cosa sono i Pfas e come il Po è diventato il fiume più contaminato d’Europa. I rischi per l’ambiente e la salute, e le possibili soluzioni.

Tempo di lettura: 29 min.

“Bottiglie, etichette, imbuti. E prendiamo un cordino per evitare di tuffarci nel fiume!”, Sara Valsecchi e Stefano Polesello sorridono. Sono le ore 7 di un mattino estivo e nel parcheggio dell’Istituto sulle Acque del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) di Brugherio i ricercatori caricano due auto per una nuova missione. Destinazione: Piemonte. Una Panda bianca parte alla volta del fiume Po per raccogliere le acque che arrivano nel mar Adriatico, mentre in una Renault Kangoo verde, Valsecchi e Polesello si dirigono verso i fiumi Bormida e Tanaro che nel Po confluiscono.

Il Cnr percorre in lungo e in largo l’Italia dal 2008 per cercare delle sostanze specifiche, presenti in oggetti e indumenti di vita quotidiana ma sconosciute fino agli inizi degli anni Duemila: i composti poli e perfluoroalchilici, i Pfas

Cosa sono i Pfas

I Pfas sono composti chimici nati negli anni Quaranta negli Stati Uniti. Sono catene di atomi di carbonio, parzialmente o totalmente sostituiti con atomi di fluoro che rendono indistruttibili superfici come le padelle antiaderenti, le pelli e i materiali antifiamma per i vigili del fuoco. Sono oltre cinquemila; incolori, inodori e insapori, non vengono mai degradati dall’ambiente e si accumulano negli organismi. Per questo sono conosciuti come forever chemicals, inquinanti eterni. In Europa e negli Stati Uniti i composti a 8 atomi di carbonio, Pfos e Pfoa, sono dichiarati pericolosi e banditi dalla produzione a partire dallo scorso decennio. In Italia, però, mancano tutt’ora limiti nazionali agli scarichi industriali.

Stefano Polesello ripercorre i primi anni di lavoro, l’assenza di confronti con colleghi esperti e la responsabilità di confermare la più grande contaminazione da Pfas in Europa.  

Tra il 2002 e il 2007 lo studio europeo Perforce ha monitorato le acque dei maggiori fiumi europei per individuare il principale inquinamento. L’obiettivo di Perforce è spingere le industrie a ridurre le immissioni nell’ambiente e gli Stati a monitorare la popolazione esposta. Lo studio mette in evidenza come il Pfoa (l’acido perfluoroottanoico capostipite dell’intera famiglia Pfas) sia la sostanza prevalente nelle acque fluviali e di come il Po sia il fiume più contaminato (200 nanogrammi per litro, quando negli altri fiumi europei è intorno ai 20 nanogrammi).  

I Pfas non vengono mai degradati dall’ambiente e si accumulano negli organismi, per questo sono conosciuti come forever chemicals.

La contaminazione Pfas in Italia

Pfas in Piemonte: il Po è contaminato dal polo industriale Solvay 

Il polo industriale di Solvay a Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, occupa 130 ettari.  

“Le analisi sulla produzione e l’uso del Pfoa ci fanno ritenere che l’impianto Solvay Solexis sia la fonte più probabile della contaminazione del Po. Vi esorto a indagare”. Era marzo 2007 e lo scriveva il firmatario dello studio Perforce, Michael McLachlan. Destinataria della mail è la multinazionale belga Solvay, che dal 2002 utilizza il Pfoa nei vecchi stabilimenti Montedison, e che ha risposto difendendo la scelta industriale.

“Non ricevendo altre risposte, ho contattato il ministero dell’Ambiente italiano”, ci racconta McLachlan. Qualche mese dopo il Cnr riceve mandato di cercare le sorgenti di questa famiglia di sostanze nei principali bacini idrici italiani, in particolare lungo l’intero fiume Po, lungo 652 chilometri.  

“Sara ha sistemato la metodica di analisi in tempi record e ci siamo lanciati in quest’avventura, per nulla consapevoli di cosa avrebbe comportato”, continua nel racconto Polesello.

“Le prime volte non sapevamo neanche dove raccogliere le acque né a chi chiedere, non era chiaro dove fosse lo scarico di Solvay nel fiume”. Poi qualcuno compare: Elio Sesia, responsabile della struttura Qualità acque superficiali e sotterranee di Arpa Piemonte. “Lo studio di Perforce ci aveva allarmati, dovevamo monitorare quelle sostanze sconosciute. Tra il 2009 e il 2012 ho fatto inserire il Pfoa nella pianificazione per i corpi idrici di superficie e ho conosciuto i ricercatori del Cnr. I dati sono usciti già a fine 2009: oltre i 3.000 nanogrammi per litro”.

Tre anni dopo, nel 2012, Arpa arriva a individuare un picco di 120mila nanogrammi di Pfoa nelle acque di scarico di Solvay che vengono convogliate nel fiume Bormida, affluente del Po.

Senza limiti di legge lo scarico Solvay può permettersi questi rilasci di Pfoa. In quegli anni non se ne sapeva nulla e l’attenzione delle istituzioni era rivolta all’inquinamento del cromo esavalente”, spiega Sesia. Per queste sostanze, dal 1967 prodotte anche in Italia dalla Montecatini, mancano tutt’ora limiti nazionali agli scarichi industriali.

Pfas in Veneto: tre intere province sono contaminate 

“Tra i pochi documenti che avevamo su queste sostanze, uno ci ha portato in Veneto, dove poi abbiamo scoperto l’emergenza”, dice Polesello. Nel 2006 l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) aveva pubblicato una lista di industrie produttrici di sostanze chimiche in Europa. La sola che produceva Pfoa era Miteni a Trissino, in provincia di Vicenza, controllata all’epoca dalla società giapponese Mitsubishi.  

Il sito Miteni visto dall’alto. Trissino, provincia di Vicenza © Federico Bevilacqua

Miteni nasce negli anni Sessanta come Rimar ed è il fiore all’occhiello della famiglia Marzotto per la creazione di sostanze chimiche da usare nei tessuti. Lo stabilimento viene costruito sopra la ricarica di una falda acquifera, perché la chimica ha bisogno di acqua per la lavorazione e il raffreddamento degli impianti, ed è più conveniente sfruttare approvvigionamenti naturali.

Oltre alla falda, Miteni utilizza il torrente Poscola per scaricare le acque di raffreddamento, trattate come pulite. Mancando leggi ambientali e informazioni sanitarie nessuno si preoccupa di cercare le sostanze chimiche, e i Pfas, come molti altri prodotti di sintesi della Rimar, invadono acque, terreni e aria di tre province: Padova, Vicenza e Verona, per 593 chilometri quadrati (oltre tre volte la città di Milano).  

pfas, lo stabilimento miteni visto dal torrente poscola
Lo stabilimento Miteni visto dal torrente Poscola © Federico Bevilacqua

Quando nel 2011 i ricercatori del Cnr analizzano le acque del Fratta Gorzone, fiume che raccoglie le acque del Poscola, rimangono increduli: “Abbiamo ripetuto le analisi perché non credevamo a numeri così alti”, commenta Valsecchi. 2.000 nanogrammi per litro, contro una media di 30 nanogrammi per litro negli altri fiumi. I ricercatori si mettono a cercare queste sostanze in tutti i corpi idrici accessibili del territorio: nei fiumi, e negli acquedotti dei Comuni che attingono dalla falda. 

Abbiamo ripetuto le analisi perché non credevamo a numeri così alti.

Come è avvenuta la contaminazione da Pfas

Negli anni Sessanta in Veneto viene costruita una potenziale bomba chimica su un punto nevralgico per la rete idrica di un vasto territorio. Miteni sversa nel torrente Poscola che, oltre a proseguire verso il mar Adriatico, scambia le sue acque con la falda da cui tre province traggono l’acqua potabile.  

“Miteni si situa nella zona di ricarica della falda della Val d’Agno, nel punto in cui l’acquifero alluvionale è ghiaioso-sabbioso. L’assenza di strati impermeabili in grado di proteggere la falda rende la zona a vulnerabilità elevata. Lo spandimento di Pfas si muove verso il mare”, spiega Dario Zampieri del dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova.

È una bomba chimica devastante, sottolinea Michael Neumann dell’Agenzia dell’Ambiente tedesca (Uba): “I Pfas sono sostanze molto mobili e rischiose, perché sono in grado di diffondersi ovunque”. La Germania ha una forte contaminazione da Pfas dovuta all’utilizzo di fanghi industriali nell’agricoltura e grazie allo studio Perforce nel 2007 vengono immediatamente posti limiti alle acque potabili e di scarico industriale, 100 nanogrammi per litro e se ne studia l’impatto. “Anche se una sostanza mobile non è altamente tossica, deve essere considerata fonte di preoccupazione per gli effetti di un’esposizione continua e per lunghi periodi”. In Italia i limiti sono posti solo nel 2013, solo per il Veneto e sono cinque volte superiori (500 nanogrammi per litro, ora ridotti a 330). 

Anche se una sostanza mobile non è altamente tossica, deve essere considerata fonte di preoccupazione per gli effetti di un’esposizione continua e per lunghi periodi.

In Italia la contaminazione più estesa d’Europa

“Nel 2012 in una trattoria veronese ho raccolto l’acqua della caraffa per analizzarla”, ricomincia Sara Valsecchi, i ricordi si intrecciano tra Piemonte e Veneto, perché tra il 2008 e il 2013 il Cnr raccoglie mensilmente campioni nelle due sedi produttive. “Il Pfoa c’è in piccole tracce anche nel rubinetto del nostro laboratorio a Brugherio (Monza), ma quella caraffa presentava migliaia di nanogrammi di Pfas, troppo!”. Nasce così la necessità di monitorare acque prelevate da punti di erogazione pubblici

“Le fontanelle dei cimiteri sono dei punti di prelievo ideali, perché allacciate all’acquedotto e sono ad accesso libero, ma sono mappate”, precisa Polesello. Le analisi del cimitero di Montecchio, a Vicenza, confermano l’inquinamento della rete; l’emergenza ambientale diventa allarme sanitario.

In Veneto l’emergenza ambientale diventa allarme sanitario.

“Abbiamo comunicato i dati al ministero dell’Ambiente e aumentato i campionamenti”. La ricerca diventa maniacale. Perché il Pfoa è nell’acqua utilizzata da oltre 350mila persone? Valsecchi sottolinea l’imprevedibile: “La falda era contaminata e serviva i pozzi destinati alle case. Arpa non aveva mai campionato Pfas e pensava di aver scongiurato la contaminazione idrica alla fine degli anni Settanta”. Nel 1977 era stato infatti scoperto a Vicenza un inquinamento di Benzotrifluoruri (Btf), prodotti sempre dalla Rimar. I Comuni colpiti cambiarono la sorgente di acque per gli acquedotti che servivano le abitazioni verso Vicenza. Nelle altre direzioni, verso l’occidente veronese, i Btf non vennero trovati e quindi non si sostituì nulla. 

Il risultato di cinque anni di lavoro, basato soprattutto sulla volontà personale e su un metodo di analisi in seguito adottato dalle Arpa, viene presentato a ottobre 2013. Si conferma la contaminazione più estesa di Europa, sia per quantità di Pfas sia perché contamina tutti i ricettori: falda, fiumi e acquedotto. La Regione Veneto chiede aiuto al ministero dell’Ambiente e al ministero della Sanità.  

Si conferma la contaminazione più estesa di Europa, sia per quantità di Pfas sia perché contamina tutti i ricettori: falda, fiumi e acquedotto.

I Pfas e la salute

L’allarme sanitario in Veneto: il sangue dei cittadini è contaminato da Pfas

Nelle province venete per poter continuare a utilizzare i pozzi vengono posti filtri a carboni attivi (comprati dalla società Chemviron, con sede a Legnago nel Veronese) a maggio 2013, dopo la consegna ufficiale dello studio del Cnr al ministero dell’Ambiente e quindi alla Regione Veneto.  

A gennaio 2014 Luca Lucentini, del dipartimento Ambiente e Sanità dell’Istituto superiore di sanità (Iss), conferma come quei filtri siano la prima risposta all’emergenza, inviando un parere alla Regione Veneto in cui si indicano i limiti di performance per i Pfas nell’acqua di rubinetto: “Abbiamo prontamente eseguito una analisi di rischio sanitario sulla base delle informazioni scientifiche aggiornate al migliore stato delle conoscenze. E abbiamo raccomandato come indispensabile e urgente l’adozione di tecnologie di rimozione dei contaminanti nella filiera idro-potabile, insieme all’identificazione e controllo delle sorgenti di contaminazione e al cambiamento delle fonti di approvvigionamento – soluzione questa configurabile nel medio periodo”.

Cartina inquinamento Pfas
Il piano di emergenza regionale ha diviso i territori colpiti in tre zone di inquinamento Pfas: rossa, arancione e gialla © Laura Fazzini

Nel corso del 2013 i comunicati ufficiali alla popolazione sono tranquillizzanti, i sindaci dei Comuni si spendono perché l’acqua del rubinetto venga utilizzata senza timore.

La Regione Veneto divide la zona contaminata per colori (rossa A e B, arancione e gialla) e nel 2015 vengono raccolti i primi campioni di sangue su parte della popolazione, soprattutto sugli agricoltori e allevatori che esportano i prodotti. A inizio 2016 Iss invia i risultati alla Regione Veneto: il Pfoa arriva a 750 nanogrammi per litro nel sangue degli agricoltori e tutte le persone hanno valori che superano la quantità media di 8 nanogrammi per litro.

Se in Germania il ministero dell’Ambiente aveva audito nel 2007 le produttrici di Pfas (viene intervistata anche Miteni) per definire valori soglia ed eventuali rischi sanitari, in Italia questo primo campionamento si traduce in una delibera della Regione Veneto a fine 2016 per uno screening sanitario dei residenti in zona rossa, 23 comuni dove l’acqua è contaminata sia in falda sia in acquedotto. Pochi mesi prima l’Agenzia Internazionale per la ricerca sul cancro indica il Pfoa come possibile cancerogeno. 

Dagli anni Settanta la famiglia Marzotto e le altre produttrici, come Dupont e 3M, analizzano il sangue degli operai per capire i rischi sanitari del Pfoa e Pfos. Nel 2000 otto aziende mondiali si riuniscono negli Stati Uniti e coordinano un piano annuale di analisi, per l’Italia è coinvolto il medico di Miteni Giovanni Costa e dal 2002 Giuseppe Malinverno per Solvay. Dal 2009 i Pfas sono correlabili a patologie come pressione alta, colesterolo, disfunzioni tiroidee e preeclampsia. 

Come viene affrontata l’emergenza sanitaria

Francesco Bertola è un ematologo, presidente della sede di Vicenza di Isde Medici per l’ambiente: “Le analisi che i cittadini della zona rossa sono chiamati a fare sono indispensabili per certificare la presenza dei Pfas nel sangue, e attuare una sorveglianza sanitaria sulla popolazione, ma una vera e propria campagna preventiva richiederebbe di più”.

Isde fin dal 2013 parla apertamente alla popolazione del rischio d’esposizione: “I Pfas interferiscono con l’azione degli ormoni e danneggiano il sistema endocrino. Quando nel 2017 la Regione Veneto ha iniziato a campionare la fascia adulta, mi sono chiesto perché non iniziare con chi ha un problema ormonale o le donne incinte? In questi ultimi anni diversi studi scientifici, statunitensi ma anche veneti, hanno confermato la correlazione tra Pfas e pressione alta, colesterolo e preeclampsia. Ma non ci sono comunicazioni dirette alle vittime di queste patologie”, insiste Bertola, che porta avanti uno studio indipendente destinato ai giovani maschi per prevenire tumori ai testicoli, grazie agli attivisti come le Mamme No Pfas, nate nel 2017 e diventate protagoniste della lotta ai Pfas. 

La gravità di questa emergenza sanitaria è anche legata all’accesso alle analisi del sangue. La Regione Veneto le limita ai residenti della zona rossa nati in determinati anni. A chi abita in zona arancione, ad esempio, se ne sta ancora discutendo. E non li si può fare da nessun’altra parte in Italia”, sottolinea Bertola. In Italia ancora scarseggiano strumenti e metodologie per trovare i Pfas nel sangue. A dicembre 2021 il Policlinico di Milano valida il metodo per misurare nel siero trenta diversi Pfas (su cinquemila), fra cui il perfluorurato cC6O4 di Solvay. Solvay che, nel 2021, vieta l’acquisto dello standard analitico necessario per eseguire i monitoraggi, ad eccezione degli enti pubblici di ricerca controllo ambientale: il Policlinico è quindi il solo ora a poterlo cercare nel sangue, in tutto il mondo.  

Silvia Fustinoni è responsabile dell’unità di Tossicologia ambientale e industriale presso la Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico: “I Pfas sono classificati come sostanze chimiche pericolose, sono ubiquitari nell’ambiente e, molti di essi, sono biopersistenti”. 

Dal 2014 Solvay ha scelto il Policlinico come clinica del lavoro; nel dipartimento interessato opera Giovanni Costa, il medico interno di Miteni che dagli anni Settanta studia i perfluorurati. Due studi sulla presenza di alcuni Pfas prodotti da Solvay nel sangue dei lavoratori Solvay in Italia sono stati recentemente pubblicati, a firma della dottoressa Silvia Fustinoni e del dottor Dario Consonni, attuale epidemiologo di Solvay.

I Pfas sono classificati come sostanze chimiche pericolose, sono ubiquitari nell’ambiente e, molti di essi, sono biopersistenti.

Il cC6O4 ormai qui è ovunque, lo troviamo nelle uova degli uccelli selvatici che abitano sul Bormida, ma anche nei terreni agricoli vicino allo stabilimento di Solvay”, spiega Valsecchi mentre etichetta le provette di acqua raccolta dallo scarico. “Ho deciso di cercarlo nei campioni che avevo prelevato nel 2011 in Veneto, e l’ho trovato”, continua insistendo sugli anni.

Il cC6O4 è il sostituto del vietato Pfoa 

Nel 2011, presso il Registro europeo per le sostanze chimiche (Echa), Solvay iscrive un nuovo perfluorurato, il cC6O4 appunto, insieme alla Miteni. Le due aziende devono sostituire il Pfoa, dichiarato pericoloso nel 2006 dalla comunità scientifica statunitense, e dopo due anni di prove registrano il sostituto, che è considerato meno pericoloso per il corpo umano. La prima fase di produzione comincia però già nel 2009 in Solvay a Spinetta Marengo, spedendo la resina ottenuta in Veneto alla Miteni per la fase finale. Ciò in violazione della Direttiva Seveso, l’attuazione della norma europea per prevenire e controllare i rischi di incidenti rilevanti connessi a sostanze classificate pericolose, e che quindi obbliga le industrie che producono sostanze pericolose a denunciarne la lavorazione alle istituzioni.

All’epoca né Solvay, né Miteni domandano di includere la produzione del cC6O4 nelle Autorizzazioni Integrali Ambientali. Di questa sostanza si inizia a parlare ufficialmente solo nel 2018, quando Miteni ne fa autodenuncia a seguito delle indagini aperte dal Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri di Treviso (Noe).

Nell’audizione alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle ecomafie, il 28 gennaio 2020, il direttore dello stabilimento Andrea Diotto dice invece che Solvay produce il cC6O4 dal 2013. Nell’audizione di aprile 2021, Claudio Coffano, tecnico della provincia di Alessandria e responsabile delle autorizzazioni ambientali per le industrie, indica invece il 2017. Avviato nel 2009, brevettato nel 2011, il cC6O4 è stato quindi prodotto senza autorizzazione fino al 2020: un decennio in cui Solvay arriva a produrne 40 tonnellate l’anno.

I processi per inquinamento ambientale

Piemonte: il primo processo Solvay 

A seguito dell’acquisizione di Ausimont nel 2002, nel 2009 Solvay è chiamata dalla procura di Alessandria a rispondere di disastro ambientale per sostanze storiche inquinanti come cromo esavalente, ddt e arsenico. Il processo comincia nel 2011. Fra le contaminazioni attive c’è anche il Pfoa, con 28.000 nanogrammi per litro nella falda, come testimonia a fine aprile 2013 Alberto Maffiotti, dirigente di Arpa Alessandria.

Al processo, Arpa Piemonte presenta uno studio sulla tossicità del Pfoa, firmato dall’epidemiologo Ennio Cadum: “Ho raccolto i dati degli operai, li ho uniti alla letteratura scientifica e ho concluso di monitorare tutta la popolazione residente vicino allo stabilimento. Perché nel 2009 si conoscevano i danni del Pfoa”, spiega per telefono dal suo nuovo posto di lavoro, lontano dal Piemonte. La segnalazione del dottor Cadum rimane inascoltata, il Procuratore Riccardo Ghio decide di non insistere sulla produzione di Pfas, perché non sono ancora normati a livello nazionale. 

La condanna in primo grado arriva nel 2015 per i dirigenti Canti, Carimati e Guarracino e con la richiesta di bonifica, condanna confermata a dicembre 2019 in appello. Vittorio Spallasso è l’avvocato che per il Wwf ha depositato gli esposti nel 2009: “Dopo la prima condanna del 2015 il reato era passato da doloso a colposo, cioè senza dolo accertato. La sentenza confermata poi in Corte di Cassazione è un importante punto fermo per la tutela dell’ambiente nella zona del polo chimico”.

La collega Laura Pianezza sottolinea un punto del processo: “Peccato che l’avvocato del ministero dell’Ambiente abbia chiesto un risarcimento economico e non la bonifica, andando contro l’attuale legge ambientale”. Per un errore del Ministero, che non ha ancora modificato la richiesta come richiesto dal giudice, le sostanze sono ancora lì. Tanto che l’11 febbraio 2021 il Nucleo operativo ecologico (Noe) dei Carabinieri di Alessandria torna dentro lo stabilimento, ottemperando al mandato del procuratore Cieri. Perché gli avvocati del Wwf Spallasso e Pianezza non hanno aspettato, bensì nel giugno 2020 hanno depositato un esposto chiedendo alla Magistratura di accertare se la presenza di cC6O4 in falda sia il tracciante di una contaminazione che continua.

Veneto: il processo Miteni

Dopo una prima archiviazione nel 2013, la procura di Vicenza affida nel 2016 al Noe di Treviso le indagini per disastro ambientale e avvelenamento delle acque nei confronti di Miteni. Nel 2018 si aggiunge un secondo filone di indagini su cC6O4 e GenX, Pfas ritrovati dopo autodenuncia della ditta. Nell’ottobre 2019 inizia il processo, sono chiamate Mitsubishi, ICIG3 e Miteni Spa. Per la prima volta come parti civili si costituiscono insieme due ministeri, Salute e Ambiente. Parte civile anche Regione Veneto, assistita dal 2017 al 2019 dall’avvocato Dario Bolognesi, già avvocato di Solvay per tutti i gradi del processo ad Alessandria. Alla prima udienza del 2019 viene sostituito da Fabio Pinelli, ora Paolo Tabasso. 

26 aprile 2021, dall’aula più grande del tribunale di Vicenza esce in lacrime Piergiorgio Boscagin, presidente della sede di Cologna Veneta di Legambiente: “Non ci credo, è fatta!”. Piange per la fatica, l’impegno e la rabbia di sette anni vissuti a lottare contro le aziende ora ritenute responsabili civili di avvelenamento delle acque e disastro ambientale colposo

Le aziende sono ritenute responsabili civili di avvelenamento delle acque e disastro ambientale colposo.

Tre aziende contro oltre 300 parti civili, tra cui due ministeri, Regione Veneto, le Ulss (Unità locali socio sanitarie) e l’enorme rete di attivisti che dal 2013 ha difeso il diritto di sapere la verità. Boscagin tra i primi aveva avvertito la popolazione con volantini, ricevendo anche una diffida da Coldiretti per allarmismo sulla possibile trasmissione dei Pfas attraverso gli alimenti. Festeggia anche Alberto Peruffo, attivista di Pfas.land e organizzatore di manifestazioni che dal 2017 coinvolgono centinaia di persone: “La nostra terra inquinata si merita di sapere chi la sta distruggendo”. 

Tra i presunti responsabili c’è Luigi Guarracino, ex dirigente Solvay già condannato per disastro ambientale nel processo di Alessandria. E condannato anche nel 2014, reato poi prescritto, come amministratore della ex Montedison, per avvelenamento delle acque nel polo chimico di Bussi sul Tirino (Pescara). Guarracino, dopo essersi dimesso da Solvay, era arrivato nel 2009 a Trissino in Miteni per la sua competenza sui perfluorurati e nel settembre 2013 spiegava al consiglio comunale: “So delle difficoltà economiche di Miteni, ma ho una lunga esperienza e ora abbiamo grosse società che investono su di noi, anche dall’estero”. Guarracino si riferiva all’olandese Chemours e a Solvay, invitata più volte nel 2011 a Trissino per capire come lavorare il cC6O4. Dal 2013 la Chemours, controllata dalla Dupont (che dal 2001 è condannata negli Stati Uniti per milioni di dollari per avvelenamento delle acque da Pfas), spedisce a Trissino il rifiuto del GenX, Pfas “cugino” del cC6O4, perché sia rigenerato e rispedito pulito in Olanda. Questi due Pfas ricevono l’autorizzazione integrata ambientale da Regione Veneto nel 2014: siamo in piena emergenza Pfas, ma nessun tecnico di Arpa viene mandato a cercarne tracce negli scarichi.

Al processo Miteni il primo testimone della Procura è ascoltato il 25 novembre 2021, è Stefano Polesello: “Negli scarichi Miteni del 2011 il cC6O4 c’è già”

Altra lunga testimonianza è del maresciallo Manuel Tagliaferri, a capo della squadra che per cinque anni ha indagato sui Pfas. Le indagini dimostrano che le tre aziende (Mitsubishi, ICIG3, Miteni) erano consapevoli della contaminazione in atto, perché pagano analisi ambientali fin dal 1990, che annualmente evidenziano la presenza di Pfas nella falda o nel torrente Poscola. Nel 2005 Mitsubishi richiede al Genio Civile (organo pubblico) una barriera di contenimento per sostanze inquinanti, senza però fare segnalazioni alle istituzioni territoriali. 

Il processo sta ora proseguendo con i consulenti ambientali di Miteni, i medici della Regione e alcuni dirigenti dell’Iss. Un ulteriore processo è in fase preliminare contro il medico interno Miteni per tre operai morti di tumore. Molti operai sono parte civile al processo, dopo aver perso il lavoro a causa del fallimento dell’azienda a fine 2018.  

Ad oggi Miteni non è ancora stata messa in sicurezza per impedire la contaminazione della falda.

I Pfas nel cibo

L’azienda di Daiana Fongaro alleva da decenni suini, vacche e galline: “Quando nel 2013 ho letto i primi articoli sulla contaminazione mi sono allarmata, abbeveriamo gli animali con acqua di pozzo, se loro sono contaminati noi cosa facciamo?”. Scoperto che il pozzo è contaminato, si allaccia all’acquedotto, tutto di propria iniziativa. “La Ulss ha raccolto uova e carni, ci sembrava giusto farlo per noi e i nostri clienti”. Le analisi nel 2014 (primo campionamento della Regione Veneto, cestinato perché reputato non corretto) dimostrano la contaminazione. “Abbiamo cambiato mangimi perdendo le nostre colture, abbiamo utilizzato l’acquedotto spendendo soldi e ora siamo puliti. Ma abbiamo perso clienti e nessuno ci ha mai aiutati”.  

Malgrado studi europei dimostrino la trasmissione dei Pfas all’essere umano attraverso gli alimenti, Regione Veneto esegue un solo campionamento ufficiale nel 2017, ottenendo diversi risultati di positività in vegetali e animali. La sola restrizione conseguente è relativa al pescato nei fiumi, rinnovata di anno in anno, rimane tutt’ora applicabile solo nella zona rossa. 

Nel 2009 la Commissione europea finanzia uno studio sull’impatto di dodici Pfas negli alimenti che evidenzia pesci e uova come i più a rischio. La Regione Veneto conduce un primo campionamento nel 2014, che indica la presenza di Pfas anche nei vegetali, e un secondo campionamento nel 2017, su dodici Pfas, pubblicando però risultati relativi a solo due Pfas. La Regione Piemonte solo a febbraio 2022 incarica un primo monitoraggio su uova e latte, che indica la presenza di cC6O4 in alcune uova e un Pfas di vecchia produzione (miscela di composti chiamata ADV) nel latte vaccino. A inizio 2023 sempre l’Europa ha imposto agli Stati di denunciare eventuali Pfas presenti in alimenti presenti in commercio.

Antonio Masi, del dipartimento di Agronomia, animali, alimenti, risorse naturali e ambiente dell’Università di Padova, studia dal 2019 la risposta delle piante alla presenza dei Pfas e per LifeGate ha analizzato un broccolo fiolaro raccolto nella zona arancione. La pianta presenta Pfos nelle radici (0,60 nanogrammi per grammo) e Pfhxa nella foglia (1,30 nanogrammi per grammo), cioè la parte edibile di un prodotto locale etichettato Dop dalla Regione Veneto (Denominazione di origine protetta). Il laboratorio analizza i dodici Pfas campionati dalla Regione Veneto nel sangue e negli alimenti. Dentro una stanza sterile, Masi ha ricostruito un orto alimentato da acque contaminate: “Con la somministrazione di Pfas il mais ad esempio ha ridotto la crescita e alterato la morfologia delle radici e la fotosintesi”. Lo studio, pubblicato ad agosto 2022, ha portato l’équipe a cercare le reazioni nel territorio.

Elisabetta Donadello ospita la ricerca nella casa di famiglia immersa nei campi, con cui nutre le figlie e gli ospiti del suo agriturismo: “Il pozzo è risultato altamente contaminato e abbiamo avuto la ferale notizia che lo sono anche i nostri prodotti, per i quali usiamo solo l’acqua di acquedotto. Abbiamo scelto di trasferirci qui per vivere della natura, e ora?” Elisabetta vive a Creazzo (Vicenza), nella zona arancione esclusa dalle analisi del sangue e dal campionamento degli alimenti di Regione Veneto.

Abbiamo scelto di trasferirci qui per vivere della natura, e ora?

In Piemonte, a inizio 2022 la Regione ha cominciato un primo campionamento di uova e latte entro due chilometri dal polo chimico di Solvay. “Abbiamo cominciato da poche matrici per capire se c’era motivo di allarme, perché i Pfas sono molto complessi da ricercare”, spiega Bartolomeo Griglio, responsabile del Settore Prevenzione, Sanità pubblica veterinaria e sicurezza alimentare di Regione Piemonte. Gli esiti indicano la presenza di Pfas in uova di produzione domestica e nel latte industriale.

“Non abbiamo potuto cercare il cC6O4 perché Solvay non ci ha consegnato lo standard, ugualmente abbiamo avuto difficoltà nel ricercare l’Adv, una miscela prodotta già da Ausimont e mai denunciata da Solvay malgrado sia un perfluorurato. Adesso abbiamo ottenuto i finanziamenti, oltre 300mila euro e stiamo campionando con tutti gli standard dati direttamente da Solvay”, spiega Griglio. È previsto un biomonitoraggio della popolazione esposta, per circa 70mila euro, che però non ha ancora una data di partenza. “Il nostro interesse è tutelare le persone e siamo pronti a farci affiancare dall’Università di Torino per analizzare campioni di sangue”

Le possibili soluzioni

Si può vivere senza Pfas? 

Da giugno 2022 l’Agenzia per la protezione dell’ambiente statunitense, l’Epa, obbliga lo zero tecnico di Pfas nelle reti potabili, mentre l’Italia ha pronto il decreto sulla direttiva europea per le acque potabili che limita entro 500 nanogrammi per litro tutti i Pfas. Molte marche di vestiti e imballaggi etichettano i prodotti con “Pfas free”. H&M, Zara e Decathlon investono in materiale ecologico, McDonald’s e Burger King tolgono i Pfas dalle confezioni. In Italia Solvay, nel 2010, ottiene l’autorizzazione dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa), per l’utilizzo di resine contenenti tracce di Adv negli imballaggi alimentari che potrebbe essere trasmesso ai cibi. Solvay non ha mai risposto alle richieste di LifeGate sull’attuale presenza di Adv negli imballaggi alimentari. 

“Sono dispiaciuto per Veneto e Piemonte, ma una volta che i Pfas sono nell’ambiente non c’è modo di eliminarli. Per ripulire le acque i costi sono altissimi e quei territori italiani sono troppo grandi per pensare di bonificare i campi agricoli”. A parlare è il professore Zhanyun Wang del dipartimento di Ingegneria ambientale del Politecnico di Zurigo, uno dei massimi esperti mondiali di sostanza perfluoroalchiliche. Wang e l’équipe di Perforce insistono da anni sul termine “essenziale” per dimostrare quanto i Pfas, ritenuti dalle industrie chimiche insostituibili per alcuni prodotti, possano essere ridotti sia nella produzione e che nella dispersione nell’ambiente. “Molti usi possono essere sostituiti, come negli abiti, cosmetici e imballaggi. Le nuove tecnologie possono creare altri materiali, che possono degradare nell’ambiente e senza impatti sanitari. I Pfas sono interferenti endocrini, molti sono considerati cancerogeni, bisogna vietarli e salvare chi è esposto”. 

Per molti usi i Pfas possono essere sostituiti, come negli abiti, nei cosmetici e negli imballaggi.

A quasi mille chilometri di distanza è dello stesso parere Pietro Paris, ingegnere ora in pensione che ha lavorato nel Comitato per la valutazione del rischio delle sostanze chimiche in Europa (Rac) per l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra): “Il problema è che questi composti sono ritenuti “senza soglia”, cioè talmente pericolosi che nell’ambiente non dovrebbero esserci proprio. La coppia fluoro-carbonio è sempre dannosa”. Paris sui Pfas ha diretto il tavolo di lavoro europeo che ha vietato i più pericolosi, come il Pfoa: “Serve una legge nazionale che limiti la loro dispersione negli scarichi, l’Europa indica la strada e l’Italia deve seguirla: da gennaio 2023 è iniziata la discussione per vietarli tutti, cinquemila Pfas. Senza chimica non si vive, ma di chimica non si deve morire. E l’Europa lo sa”, insiste mentre lavora all’ultimo dossier europeo sui Pfas utilizzati nelle schiume antincendio.  

Serve una legge nazionale che limiti la loro dispersione negli scarichi, l’Europa indica la strada e l’Italia deve seguirla.

A rafforzare il richiamo europeo di Paris è una nuova mappa europea presentata dal progetto Forever Pollution Project che denuncia oltre 17mila siti contaminati da Pfas in Europa.

Cosa è stato raggiunto, tra divieti e progetti europei 

Qualcosa è cambiato, si trovano molte meno emissioni di Pfas. Alla fine, ce l’hanno fatta a scaricare meno nel Bormida”, dice Sara Valsecchi dopo aver prelevato l’ultima bottiglia di acqua dal fiume. Dopo otto ore fra strade sterrate e fiumi, la Kangoo riparte piena di acqua, grano e terra, “Meglio prendere sempre tutto, metti che tra dieci anni dobbiamo cercare altri composti che oggi non conosciamo…”, commenta Stefano Polesello rimettendosi alla guida.  

Cantiere per la sostituzione della rete idrica. Zona Belfiore, Verona © Federico Bevilacqua

Il 20 giugno 2022 Solvay annuncia la cessazione della produzione di perfluorurati entro l’anno seguente in America e di aver chiuso il circuito che rilascia nel Bormida le tonnellate di sostanze che dal 2002 inquinano il Po. La decisione è dovuta alla condanna del 2019, ai limiti imposti per i Pfas dalla Regione Piemonte a fine 2021 e alle linee guida europee che vieteranno la produzione di Pfas. Nel comunicato l’azienda però non spiega come smaltirà gli scarti del circuito chiuso, visto che in parte saranno trattenuti dai carboni attivi già utilizzati in Veneto e rigenerati dalla azienda Chemviron, attualmente posta sotto indagine dai carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Treviso per aver disperso nell’ambiente Pfas dai camini della fabbrica. Chemviron non ha mai indicato il procedimento per smaltire Pfas e, nel terreno circostante lo stabilimento, il cC6O4 è stato trovato in concentrazioni di 200 nanogrammi per chilo.  

I Pfas si possono sconfiggere 

Ma ora che la siccità in Veneto sta mettendo in ginocchio centinaia di agricoltori, chi sta guarendo le acque contaminate? “Una bacchetta di titanio elettrificata scompone la coppia perfetta fluoro carbonio rendendola innocua. I Pfas si possono sconfiggere, con l’elettrochimica”, commenta Silvia Franz dal suo laboratorio del dipartimento di Chimica al Politecnico di Milano. Con un progetto europeo di 4 milioni il polo universitario, insieme alla società idrica Acque Veronesi, svilupperà una nuova tecnologia per far fronte alla più grande contaminazione da Pfas della storia: “Abbiamo due anni di tempo per provarla e poi andare sui territori colpiti. Dobbiamo riuscire a ripulire l’acqua, per restituire alla popolazione un bene primario”. A distanza di dieci anni dal grido di allarme del Cnr ci si affida ancora a progetti europei per porre fine a una contaminazione entrata nelle case, nei corpi e nel futuro dell’Italia.

Senza chimica non si vive, ma di chimica non si deve morire.